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Centro Studi per una teoria critica della psicanalisi: Il disagio della civiltà. Psicanalisi e disagio.it

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Il Centro Studi proviene dalla Scuola Psicanalitica Freudiana fondata da Aldo Rescio nel 1980, con sede a La Spezia, e sciolta nel 2005 con la morte del suo fondatore.
Si è costituito nello stesso anno nelle persone di Riccardo Ambrosi, Attilia Brusone, Nino Di Pierro, M. Letizia Lironcurti, Anna Passaponti nel tentativo di tener vivo un pensiero critico sul disagio umano e, quindi, sulla formazione analitica.

FINALITA’

Promuovere incontri di Teoria della clinica aperti a coloro che desiderano prendersi cura della formazione analitica.
Promuovere progetti di ricerca, dibattiti, giornate di studio rivolti a coloro che sono interessati a diverso titolo alla psicanalisi.


ANALISI-FORMAZIONE

Psicanalisi e pensiero critico

La psicanalisi non è una Weltanschaung

La psicanalisi – come inequivocabilmente insegna Freud – non è e non vuole essere una Weltanschaung. Da qui la sua irriducibilità alla religione, all’ideologia, comunque entrambe vengano intese, riproposte o rinnovate. Ma ciò richiede un’interrogazione critica su quanto fa sì che l’una e (o) l’altra possano divenire dominanti, giacché riguarda il costituirsi delsintomo come tale: ossia la testimonianza dell’orrore (ma al tempo stesso del suo misconoscimento) nei confronti e dellafinitudine e dell’inconscio.

Sistema ideazionale dominante

Rispetto al sistema ideazionale dominante, porre l’accento sulla finitezza non può che apparire un vero e proprio delittonichilistico; una prova d’insensibilità verso l’intero genere umano. Viceversa: l’autentica pietas diviene possibile a patto di non ripudiare la caducità come nostra fedele compagna, non ostante l’eternità dell’essere. Dacché l’amore è tale qualora non prevalga il ripudio dell’<<altro>>. Ma già ognuno rispetto a se stesso è in verità altro, affetto dalladifferenza, dal gioco (destino) delle pulsioni.
Ebbene, cosa di solito comporta ciò? Deve, in ogni caso, scaraventarci nel ripudio? Oppure farci permanere nel risentimento o nella melanconia? Perché, in somma, si vive l’amore quasi sempre anticipati dall’odio, o, comunque, pronti all’odio? Pronti, cioè, a far pagare all’altro il suo essere appunto altro.

In rapporto a ciò, è bene assumere in tutta la sua radicale portata quanto Freud stesso scrive al pastore Pfister, svelandogli il legame segreto che dà il tono fondamentale a due suoi scritti in vero cruciali e per molti aspetti inquietanti:L’analisi condotta da non medici (Die Frage del Laienanalyse) e L’Avvenire di un’illusione (Die Zukunft einer Illusion). Non è per niente agevole, però, ascoltare con spirito critico queste parole: <<Nel primo saggio voglio difendere l’analisi dai medici, nel secondo dai preti. Vorrei trasmetterla a una categoria che non esiste ancora, a una categoria di pastori d’anime laici che non hanno bisogno di essere medici e non possono essere preti>>.


La psicanalisi è ancora capace di ascoltare il disagio umano?
A proposito dell’intervento di Massimo Recalcati su “Chi ha paura della psicanalisi” con riferimento al manifesto di Di Ciaccia, Argentieri, Zoja e Bolognini (Febbraio 2012)
Una delle osservazioni di Massimo Recalcati al Manifesto riguarda l’affermazione che gli psicanalisti non sono affatto estranei al rischio del loro declino e della loro emarginazione culturale. Diremmo, piuttosto, che hanno da tempo rinunciato, o forse non hanno mai neppure desiderato, a tener vivo un pensiero che non può essere più di tanto accolto dalla maggioranza degli esseri umani. Non si tratta di fare il gioco del fantasma di elezione, bensì della consapevolezza che l’uomo finora ha dato ampia testimonianza di non gradire affatto un sapere che lo disturba e lo chiama in causa rispetto al suo disagio. Vuole una soluzione, un rimedio, quanto meno un diversivo. Lo sapeva bene Freud che non per questo ha rinunciato a proporlo né tanto meno si è piegato a logiche di addomesticamento. Ancora nell’anno 1932 Freud (Introduzione alla psicoanalisi, nuova serie di lezioni) figurandosi di parlare a persone ben disposte verso la psicanalisi, dissuade tutti costoro dal tentativo di attirare favori verso questo particolare ambito del sapere con resoconti di guarigione.
È ben chiaro a Freud che la maggioranza del pubblico preferisce teorie (la psicologia in pillole, secondo l’espressione dello stesso autore) che:
a) “eliminino d’un sol colpo il problema opprimente della sessualità”. O meglio per noi: eliminino qualsivoglia problema risulti opprimente, esonerandoci così dal saperne di più su ciò che può provocare un tale sentimento. Ovviamente, in questo caso, non ci curiamo affatto di considerare se ciò che è così potente tanto da risultare opprimente possa anche essere liquidato “d’un sol colpo”.
b) “Ignorino l’inconscio”. Questo è tuttora il punto essenziale, sempre che si possa ancora pensare l’inconscio senza ridurlo a un pensiero che ritiene di fondarsi oggettivamente sulla rappresentazione.
c) Infine “si limitino a indicare qualche mezzuccio per rendere più comoda l’esistenza”.
L’odio nei confronti della psicanalisi vi è già implicito poiché l’analisi, se è tale, comporta la messa in questione della pretesa che l’esistenza risponda alle nostre più essenziali aspettative. E non in nome di un qualche principio di realtà (che per altro in Freud è sempre al servizio del principio di piacere) assunto acriticamente ne per adeguarci all’esistente. Bensì per fare i conti con il fatto che il bisogno umano di sentirsi protetto e sicuro, fondato e legittimato non può essere garantito da niente e da nessuno, se non immaginariamente.
La psicanalisi, d’altro canto, non è separabile dall’ideale che anima il pensiero di Freud (L’avvenire di un’illusione, 1927) per il quale se l’uomo non sarà più allevato nel “dolce amaro veleno della religione”, dovrà per forza abbandonare l’infantilismo “che lo tiene avvinto alla casa paterna” dove si sente protetto e sicuro. Avrebbe allora forze disponibili per “rendere la vita sopportabile per tutti e la civiltà non più oppressiva per alcuno”.
Forse non è però opportuno liquidare l’ardente bisogno di protezione e sicurezza come infantilismo né tanto meno un atteggiamento illuministico verso la religione.
La psicanalisi è un prendersi cura della sofferenza umana nelle sue diverse e via via nuove forme, ma a un tempo è un prendersi cura del desiderio di non proporsi come l’ennesima via di salvezza, come promessa di un sapere che ci farà finalmente invulnerabili e padroni del desiderio. Ma la psicanalisi deve anche sapere che l’uomo desidera, o meglio pretende, proprio questo. L’essere sa da sempre – e da sempre non tollera per lo più questo “suo” sapere – che il disagio di cui soffre non è riconducibile a una qualche colpa o causa oggettiva. Così si trova ingaggiato in differenti modi a non volerne sapere e proprio così si mantiene. Di conseguenza è quanto meno risentito quando qualcuno lo invita, là dove attende il rimedio, ad assumersi ciò che lo inquieta alla radice nei sintomi che denuncia. Il prezzo è rimanere consegnato ai meccanismi di difesa e al ritorno del rimosso che li concerne.
Come già Freud ha notato, è l’io stesso che non può concedere la propria benevolenza alla psicanalisi, ovvero la terza umiliazione inferta all’amor proprio umano: “l’Io non è padrone in casa propria”( Una difficoltà della psicanalisi, 1916). E perché l’io deve presupporre di avere una casa propria? Qual è la posta in gioco della onnipotenza narcisistica? Qual è la posta in gioco dell’illusione di padroneggiamento che, tramite identificazioni massicce al soggetto di volta in volta supposto sapere, esige di essere mantenuta nonostante tutto?
Tuttavia la psicanalisi è tutt’uno con la scommessa che l’uomo abbia risorse per confrontarsi con il suo essere permanentemente in forse e abbia altresì risorse per desiderare di non delegare quanto lo riguarda come mortale.
Non è questo il luogo per articolare come ci siamo trovati ad affrontare questi punti nella nostra Scuola che, pur differenziandosene, non ha esorcizzato la potente elaborazione di Lacan. Al quale, del resto, va riconosciuto essenzialmente il desiderio che la psicanalisi non sia un sapere conciliante, addomestico e dunque innocuo. Recalcati chiude l’introduzione al suo testo L’uomo senza inconscio con queste parole: “La psicanalisi è destinata a estinguersi se non ritroverà la ragione etica che fonda la sua pratica: rianimare il soggetto del desiderio, rendere il desiderio capace di realizzazioni creative, promuove la singolarità irriducibile del soggetto come obiezione a ogni sua assimilazione conformistica”. Ma se desiderare significa assumere la propria mancanza non come una mancanza contingente ma come mancanza a essere, forse occorre dire chiaramente cosa secondo noi impedisce al soggetto di farsi carico del desiderio. È una ignoranza secondo la migliore tradizione illuministica? O è un non volerne sapere dell’erranza originaria e irrimediabile così come ci riguarda singolarmente? Comunque, se è in gioco il misconoscimento, cosa esige che non se ne sappia niente di ciò che ci riguarda alla radice? E a quali condizioni, di conseguenza, potrebbe venir meno?
Per quanto riguarda la questione epistemologica non si tratta di rivendicare la psicanalisi come scienza a statuto speciale, ma di affermare che la psicanalisi non è interessata al riconoscimento da parte del sapere scientifico. Non per boria, dacché la scienza è una espressione dell’uomo e come tale da prendere in considerazione. Piuttosto perché la psicanalisi dovrebbe sentire come la “sua cosa”, ciò che dà da pensare, che l’inconscio in quanto inconscio non è riducibile al sapere. Abbiamo sempre a che fare con formazioni dell’inconscio che non possono essere ascoltate se siamo gia, senza per altro rendercene conto, da una concezione oggettivante dell’inconscio stesso. La psicanalisi non dovrebbe considerarsi un sapere accanto ad altri saperi né tanto meno il sapere più vero. Piuttosto è una interrogazione critica intorno a ciò che gli uomini investono come sapere, un ascolto delle pretese che il sapere accampa e della posta in gioco esistenziale di tali pretese. La psicanalisi non solo dovrebbe tenere conto di Jaspers (in particolare il tema del naufragio) e di Husserl, come richiama Umberto Galimberti (in Donna, inserto di Repubblica, 2 giugno 2011) ma soprattutto della lezione di Heidegger sulla questione dell’essere e sulla questione del pensare e del volere.
La psicanalisi non è neppure scienza ermeneutica, come invece propone lo stesso Galimberti piuttosto deve confrontarsi con la resistenza a prendere atto che non esiste il significato del significato o il senso del senso poiché l’uomo ha orrore che il pensiero, così come il desiderio, non è tale da ridursi al dominio del pensiero stesso. A proposito riteniamo più rilevante confrontarsi con le riflessioni sull’etica della psicanalisi, e in questo contesto con l’ermeneutica, che Massimo Recalcati offre nel saggio L’universale e il singolare (1995), testo dove sostiene l’essenzialità del ritorno a Freud da parte di Lacan sulla ripresa della questione della pulsione di morte.
A patto che non si esorcizzi l’orrore ripudiato, di quello che lo stesso Recalcati denuncia come il baratro che costeggia ogni analisi. “Perché che non c’è Altro dell’Altro significa che manca, alla radice ultima dell’Altro, un senso, appunto, originario – in quanto, come ha detto una volta Lacan, alla radice della vita non troviamo il senso; alla radice della vita troviamo la congiuntura con la morte”(Recalcati, L’universale e il singolare).
Nella elaborazione di Aldo Rescio e, conseguentemente nella sua formazione, la psicanalisi non può semplicemente proporsi come arte dell’interpretazione. L’essere umano è bisogno di interpretazione in atto poiché è bisognoso di senso e, soprattutto, si trova a interpretare secondo la domanda di fondamento che lo connota, misconoscendo l’inconscio in quanto inconscio, ossia l’abisso che struttura l’esistenza. Pertanto l’interpretazione analitica è tale se coglie qualcosa intorno al nesso tra sapere e angoscia e il “ne va” radicale che prevalentemente consegna la persona alle difese, sostenute sempre da aspettative salvifiche.
In effetti
In quanto mortali, è impossibile non essere affetti dalla domanda (esigenza) di fondamento, dal tempo della rassicurazione-giustificazione: ossia dall’imporsi del desiderio (delirio) di identità-unità-integrità, la cui posta in gioco essenziale consiste nel rinnegamento della finitudine, dell’altro in quanto altro: ovvero dell’inconscio.
Per questo difficilmente ci si sottrae all’onto-teo-ego-logia: alla promessa del pensiero edificante (e perciò stessoidentificante, oggettivante), che come tale non è altro che la più acuta sconfessione del senza per-che, dunque: dell’originaria mancanza di fondamento.
Ne viene che il supposto Altro – la condizione per il darsi stesso dell’appello o dell’invocazione salvifica – non può che risultare barrato (assente). Inoltre è proprio dell’uomo il suo essere originariamente esposto all’indifferenza dell’essere, alviolento e al tragico come tali.
Ma
Non potendo tollerare di non avere alcun fondamento, alcuna giustificazione, gli umani aspirano a un senso assoluto, incontrovertibile. O, comunque, si trovano identificati a un senso così come capita; in somma per riprendere una puntuale annotazione di Nietzsche: «[...] un qualsiasi senso è meglio che nessun senso [...]». Propriamente: il senso non ha alcun senso, se non appunto quel senso che s’impone comenecessità di orientarsi, giacché ne va del nostro stesso sentirsi essere, consistere. Del resto, proprio in relazione a ciò si è portati a rinnegare la finitezza, l’irriducibilità dell’essere a un senso compiuto, definitivo.
(Aldo Rescio, L’uomo e l’abisso. Mysterium salutis.)


L'inconscio non è l'irrazionale, non si oppone a nessuna presunta ragione. Piuttosto l'inconscio in quanto tale non può essere ridotto alla coscienza che, d'altronde, è effetto delle formazioni dell'inconscio. Per questo si può cogliere, o anche comprendere, qualcosa di essenziale che riguarda l'uomo. Soprattutto, declinato in tutti i modi in cui si declina, il non volerne sapere dell'inquietante che lo concerne costitutivamente.
La metapsicologia in quanto teoria critica della clinica, così come ogni analisi didattica o formazione, dovrebbe innanzitutto confrontarsi con la dominante concezione umana intorno alla verità. Essenzialmente essa consiste nel ritenere che la verità sia ciò che ci si trova costretti a rappresentare come verità e ciò è frutto dell'orrore nei confronti della verità in quanto imporsi, dunque, alla radice, impadroneggiabile.
Non si tratta dell'impossibilità di formulare leggi in generale per casi che sono sempre particolari. Intanto, l'universale è innanzitutto la pretesa della ragione che vuole sconfessare quanto di irriducibile permane nelle cose. Su un altro versante, possiamo attribuire a tutti gli esseri umani, proprio perché tali la medesima condizione. Siamo tutti irrimediabilmente mortali e nessuno di noi ha deciso di venire al mondo. Come ciascuno si trova a essere toccato e a rispondere di questa sorte, a come ciascuno di noi si trova identificato agli imperativi del dover essere, all'ordine simbolico o all'ordine del discorso, ovvero alle promesse salvifiche di volta in volta dominano, questo è, si, assolutamente singolare. È assolutamente singolare come ciascuno di noi si trova di volta in volta a sbrogliarsela o a non sbrogliarsela con la vita.
Se la formazione degli analisti è ridotta a indottrinamento, ciò è la conseguenza del rigetto della irriducibilità dell'essere umano, e quindi del disagio che lo riguarda, a una qualsivoglia tecnica. Anche la stragrande maggioranza degli esseri umani domanda proprio questo, ed è bene saperlo. Lacan nel 1953 (Il seminario. Libro I.) scrive che l'uomo contemporaneo è diventato singolarmente incapace ad affrontare i temi dei grandi dialoghi della tradizione sulla giustizia e sul coraggio (aggiungeremmo: e sulla verità). ?Preferisce risolvere le cose in termini di condotta, di adattamento, di morale di gruppo, di altre frottole. Da qui la gravità del problema che la formazione umana dell'analista pone?. Invero l'uomo di oggi è ancora più stordito dalla violenza del non volerne sapere dell'orrore della finitudine e della morte.
Per tentare di non fare il gioco del pensiero oggettivante - oltre che isolarne la struttura di fondo così da non incorrere nell'illusione che il pensiero psicanalitico non sia un pensiero oggettivante - è necessario interrogarlo rispetto alle rassicurazioni immaginarie che promette. Insomma, o nelle strategie di evitamento, nei meccanismi di difesa, nelle varie forme del divertissement, sempre più tristi per altro, è in gioco un potente tornaconto, oppure cosa, chi impedisce all'essere umano di sottrarsi all'illusione del fare o dell'essere Uno con l'Altro? All'illusione di far circolare il godimento senza perdita? Cosa impedisce di accogliere il disagio immanente al desiderio o impedisce di riconoscere che dall'Altro non potrà mai venire una giustificazione in senso fondato su ciò che ciascuno decide di assumere come proprio desiderio?
Forse
Il desiderio è di per sé inquietante poiché non si lascia trasformare in un mero bisogno, o identificare secondo i canoni del pensiero oggettivante. Di conseguenza non è dato più di tanto lasciar essere il desiderio come desiderio: o, con Freud, accogliere che i desideri sono inconsci e al tempo stesso indistruttibili, per cui si ha che fare con l’impossibile del desiderio.
Inoltre, niente ha il potere d’impedire che il desiderio di per sé decada, favorendo, così, la depressione, o la pura melanconia.
Ma questo comunque può altrettanto accadere quando non è in alcun modo consentito accogliere almeno in parte l’orrore immanente al senza per-che, all’assurdo. D’altronde è in queste condizioni, capaci davvero di terrificare, che si rischia di rimanere in preda a una depressione senza scampo.
(Aldo Rescio, L’uomo e l’abisso. Mysterium salutis)





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